di Alessandra Broglia
La scuola pubblica italiana: un viaggio tra le varie zone che si contraddistinguono per varie problematiche, con personale che lotta ponendo le basi per un futuro, a tanti alunni e studenti. Uscire dai confini per cogliere ciò che a noi manca e magari potersi confrontare con il nostro sistema deficitario e trarre spunti per migliorarlo. "Ora o mai più", edito da Chiarelettere, è il libro di Sabrina Carreras, giornalista d’inchiesta e autrice, dal 2009 inviata del programma di Rai 3, Presa Diretta, condotto da Riccardo Iacona. Un’attenta analisi dallo sguardo sensibile di una professionista che ha evidenziato, tra personale scolastico, genitori, imprenditori, pedagogisti, scienziati ed esponenti della politica locale, le storie di innovazione per una nuova scuola, tra testimonianze, statistiche e dati scientifici. Abbiamo voluto approfondire temi così importanti con l’autrice stessa.
Prima la pandemia e lockdown; ora la guerra in Ucraina: coloro che hanno il coraggio di ricostruire il futuro possono definirsi ottimisti o poco realisti?
Non li definirei ottimisti né poco realisti. Le storie che racconto nel libro sono semplicemente storie di chi non si arrende, di chi resiste alle difficoltà e con immaginazione e caparbietà sperimenta soluzioni. C’è chi combatte contro la mafia e l’indifferenza delle istituzioni per costruire un asilo in un quartiere alla periferia di Palermo deprivato di tutto; chi immagina e progetta scuole più sicure, più verdi, più sostenibili escogitando modi nuovi per far parlare tra loro architettura, pedagogia e rispetto per l’ambiente; chi dentro e fuori le aule smonta pezzo per pezzo tutti quegli stereotipi che ancora fanno credere che la matematica non sia cosa da femmine e la scuola materna non sia per insegnanti maschi; chi si è messo in discussione cercando nuove metodologie per appassionare gli studenti alla scrittura e alla lettura, non seguendo le mode del momento ma andando a studiare le più recenti scoperte scientifiche. Sono storie di resistenza. E non sono casi isolati: c’è un vero e proprio movimento di presidi, insegnanti, ma anche studenti, genitori, personale Ata, architetti, scienziati, economisti e associazioni che non si arrendono al paradigma del declino e costruiscono il futuro a partire dalla nostra scuola pubblica. Questo libro nasce da anni di lavoro sul campo. Come giornalista di inchiesta mi sono occupata di tantissimi temi e mi sono resa conto che la lente migliore attraverso cui leggere e capire il nostro Paese è proprio la nostra scuola pubblica. Primo perché la scuola ci riguarda tutti: perché a scuola non si impara solo a leggere e a scrivere, ma anche a stare e crescere con gli altri. In una parola ad essere cittadini. E poi perché è a scuola che si misura la capacità di immaginare e costruire il futuro. Ecco perché il mio libro si intitola “Ora o mai più” perché adesso è il momento di riprenderci la nostra Scuola: con la pandemia e il covid per la prima volta nella storia la scuola è entrata dentro le case degli italiani. Nelle cucine, nelle camerette, nei salotti. Le lezioni degli insegnanti sono diventate pubbliche e l’istruzione è diventata il centro dell’organizzazione e dell’economia familiare. Mai come in questa fase storica, gli italiani hanno sentito il bisogno di scuola: l’hanno desiderata e invocata. Hanno capito che senza la scuola crolla il patto che ci tiene insieme come comunità. Ora è il momento di rimettere la scuola al centro del dibattito pubblico. Ora che sono in arrivo i soldi europei di Next Generation. Non ci sono più scuse: una scuola che funziona già c’è, è quella che racconto nel libro, e da lì bisogna ripartire.
Nel suo libro parla anche dei problemi legati all'edilizia scolastica: quale situazione l'ha colpita di più?
Come giornalista ho seguito nel 2008, e precisamente il 22 novembre, la storia di Vito Scafidi, uno studente di 17 anni di Rivoli in provincia di Torino, rimasto schiacciato sotto il controsoffitto della sua aula crollatogli addosso mentre stava seduto al suo banco. Quello che fa rabbia è che è stata una tragedia che si poteva evitare, se solo la scuola fosse stato oggetto di verifiche e controlli. Anche la morte degli 8 ragazzi sepolti sotto le macerie della casa dello studente durante il terremoto dell’Aquila del 2009 si sarebbe potuta evitare se i lavori di ristrutturazione dell’edificio, effettuati tra la fine degli anni 90 e il 2002, fossero stati eseguiti conformemente ai criteri di diligenza, prudenza e perizia e nel rispetto della normativa prevenzionistica. Ecco a 13 anni da quelle tragedie annunciate e quindi evitabili, sapete quanti edifici scolastici sono in regola con la normativa antisismica? Appena il 12,7%. Metà delle scuole non ha il certificato di agibilità o quello di prevenzione antincendi. E il 41% degli edifici richiede interventi di manutenzione urgenti, perché il nostro è un patrimonio scolastico vecchio che risale agli anni ‘70 80 quando non ai primi del 900. Per non parlare dell’efficienza energetica: solo il 18% delle scuole ha impianti rinnovabili e il 6% impianti elettrici in classe A. Il problema è che il nostro patrimonio edilizio è vecchio se non addirittura vetusto: basta dare un’occhiata alle statistiche ufficiali sull’edilizia scolastica per farsi subito un’idea: più del 60% delle nostre scuole sono state costruite negli anni 70 e 80 e addirittura un 16% prima della seconda guerra mondiale. Io stessa ho visitato scuole nei nostri centri storici costruite nei primi del 900 addirittura per altri scopi: ex caserme, ex ospedali, che richiedono una costante manutenzione. E poi sono stata in alcuni comuni del Sud dove il tasso di natalità è tornato a crescere e quindi abbiamo più alunni, ma aule piccolissime e spesso non adatte ad ospitare laboratori. Sono scuole pensate e progettate per bisogni diversi rispetto a quelli di oggi. Ma anche in questo caso non mancano gli innovatori: per evitare che le mura del passato soffochino la scuola del futuro c’è chi ha ripensato gli spazi e quindi le aule, ma anche i corridoi, i laboratori e gli arredi. Come hanno fatto le scuole del movimento Dada [acronimo di Didattiche per Ambienti di apprendimento ndr] che hanno costruito spazi di apprendimento: alle superiori non c’è la terza C ma l’aula di scienze o di lettere. E alle elementari hanno costruito ambienti colorati, flessibili con banchi mobili dove poter studiare insieme mettendo a frutto le emozioni e la creatività. Perché bisogna stare seduti al banco fermi per ore in maniera quasi punitiva? È lo stesso che si sono domandati le Scuole senza zaino che hanno destrutturato l’aula e hanno previsto più aree per fare più attività contemporaneamente: quella dei laboratori, dell’agora e le isole di banchi per lavorare insieme e ancora la pedagogista Beite Weiland sta progettando tavoli alti i tavoli del pensiero, e la sperimentazione Eden per portare le piante dentro le aule per avere una scuola abitabile come una casa, dove ci si senta a proprio agio. Del resto lo diceva già Peppino Impastato: “Se si insegnasse la bellezza alla gente la si fornirebbe di un’arma contro rassegnazione, paura e omertà”.
Lo sport e la scuola: quale cambiamento si augura? Con quali tempistiche?
Anzitutto c’è un problema strutturale. Secondo i dati ufficiali del MIUR il 28,2% dei nostri edifici scolastici non possiede una palestra, percentuale che sale al 38,4% nelle regioni del Mezzogiorno. E anche quando le palestre ci sono non è detto che siano in buone condizioni: ho visitato scuole dove l’unica palestra disponibile è un cortile con un campo di pallavolo all’aperto in cemento armato pieno di buchi. Ci si allena raccogliendo la palla tra erbacce e spigoli, mentre a turno uno degli alunni tiene la rete, acquistata peraltro con i soldi dei genitori… Ma poi c’è un problema culturale: nella nostra scuola la cultura del movimento è pressoché assente. Le ore dedicate all’educazione fisica, sono pochissime rispetto agli altri paesi europei. Siamo agli ultimi in classifica. Eppure in Italia abbiamo tassi altissimi di obesità infantile. Ecco se l’attività sportiva a scuola viene fatta se e quando avanza tempo, fare sport diventa un carico per le famiglie. E oltretutto solo per quelle che se lo possono permettere. Su questo tema però ci sono dei passi che si stanno facendo: nel PNRR ci sono risorse dedicate proprio alla costruzione di nuove palestre e la messa in sicurezza delle vecchie, così come finalmente l’arrivo di insegnanti di educazione motoria alle elementari. In più sta arrivando a conclusione un importante traguardo: quello di inserire la parola sport nella Costituzione. Era stata richiesta da un movimento di oltre 14.000 cittadini insieme ad altri 250 campioni e campionesse riuniti intorno a “Manifesto per lo sport”. Può sembrare un passaggio metaforico, ma non lo è e già fa discutere. Occorre generare un diritto allo sport. Sono decine di anni che sento tutti concordi sul fatto che lo sport sia uno strumento di inclusione, di costruzione della personalità, di costruzione, ovviamente di salute e quindi di risparmio per il servizio sanitario nazionale, cosa peraltro testimoniata dall'evidenza scientifica però è sempre cambiato, molto poco. Allora portare la parola sport dentro la nostra Costituzione significa determinare un diritto e per tutelare quel diritto serviranno politiche pubbliche. E l'altro effetto è che quel diritto dovrà necessariamente dialogare con altri due diritti, già tutelati dalla Costituzione, che sono il diritto alla salute. nell'articolo 32 e il diritto all'istruzione articolo 34. In questo modo lo sport diventerebbe un bene pubblico.
Il tempo pieno: una porzione che per i ragazzi può essere davvero formativo, perché il nostro Paese non investe abbastanza?
Probabilmente perché non si è capito quanto possa essere uno strumento per abbattere le diseguaglianze. Oggi c’è un confine fatto di minuti, ore, giorni passati a scuola che divide chi ha avuto la fortuna di nascere e crescere nelle regioni del centronord dove è possibile chiedere e ottenere classi a tempo pieno e chi invece frequenta la scuola al Sud dove questa scelta è un vero e proprio lusso. Di fatto, è stato calcolato, è come se al Sud i ragazzi frequentassero un anno di scuola in meno. Con conseguenze enormi visto che è proprio nelle regioni meridionali che di registra il record di dispersione e abbandono scolastico.
In questa inchiesta ha varcato i nostri confini: quale modello estero le piacerebbe sia importato in buona parte per la nostra scuola?
Sì, nel libro racconto gli esempi delle scuole europee che ho visitato: a partire da quelle svedesi e finlandesi, passando poi per la Danimarca, la Francia e la Scozia. Però credo che non ci sia un modello da importare. Sono tantissime le storie e gli esempi di buone pratiche che funzionano già in Italia. Quello che manca è una visione di lungo periodo: di decidere ad esempio come fanno in Francia che tutte le scuole debbano avere due ore alla settimana di nuoto durante l’orario scolastico. Oppure che si debba investire nelle scuole più in difficoltà, prevedendo risorse certe e costanti per strutture e personale, come fanno in Svezia. Sono delle scelte. Ma in quei paesi sono state portate avanti con costanza. Ecco io credo che sia arrivato il momento di decidere che tipo di scuola vogliamo e di portarla avanti fino in fondo.
Autore: Redazione PN
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